Così l’ha definita Luca Pani, direttore generale di AIFA, per il trend di crescita costante che le sue vendite stanno facendo registrare in tutto il mondo e per la possibilità di utilizzo inappropriato da parte dei pazienti.
In effetti – fa sapere l’Agenzia Italiana del Farmaco – il mercato globale della Vitamina D, secondo i dati resi noti da Euromonitor International, è uno dei più lucrativi e in rapida espansione nell’ambito del settore dei cosiddetti “nutraceutici”. Tra il 2007 e il 2012 ha fatto registrare il più alto tasso annuo di crescita composto (20%) dell’intero comparto e ad oggi si attesta a quota 934 milioni di dollari.
Secondo le previsioni più recenti potrebbe raggiungere quota 1,3 miliardi di dollari entro il 2017, a fronte dei 315 milioni di vendite globali nel 2007. Una crescita impetuosa che sarebbe legata, secondo gli analisti, alle indicazioni contenute in diversi studi e alle raccomandazioni degli esperti, che associano l’assunzione di questa sostanza a numerosi benefici in termini di salute.
«Il tasso di crescita annuo composto di questa vitamina è pari al 20% in tutto il mondo e in Italia produce un mercato – commenta Pani – che ammonta a 187 milioni di euro su base annua. L’AIFA ha guardato con attenzione i dati e ciò che emerge è che ad essere in aumento è il consumo di vitamina D da sola (+17,6% rispetto al 2012), mentre è in riduzione il consumo di farmaci a base di calcio in combinazione con Vitamina D (-3,6% rispetto al 2012) e quello del calcio da solo è costante. In poche parole ci troviamo di fronte a prescrizioni di Vitamina D non appropriate, ad esempio per le diete dimagranti, non sostenuto dalle evidenze scientifiche».
A livello regionale il consumo di vitamina D ed analoghi presenta un’ampia variabilità, con i livelli più elevati in Puglia, Abruzzo e Molise, mentre quelli più contenuti si registrano in Valle d’Aosta, Piemonte e Umbria.
Esiste una giustificazione clinica per questo aumento delle prescrizioni? Recentemente alcune revisioni sistematiche hanno sollevato dei dubbi circa l’utilità dell’impiego della vitamina D per prevenire l’osteoporosi, se assunta da sola, oltre che sui suoi effetti sulla salute in generale.
Secondo uno studio pubblicato sull’autorevole rivista scientifica The Lancet, quasi la metà degli adulti di età superiore ai 50 anni assume integratori a base di vitamina D, come coadiuvante nella prevenzione dell’osteoporosi. I ricercatori, guidati da Ian Reid, hanno analizzato, con la metodologia della revisione sistematica, 23 trial clinici (durata media 23 mesi e mezzo, 4082 partecipanti in totale, 92% donne, età media 59 anni). La conclusione del team di ricerca è stata piuttosto netta: non esistono evidenze sufficienti a sostegno dell’assunzione di integratori di vitamina D negli adulti che non presentano rischi specifici di deficienza di questa vitamina. L’assunzione abituale di vitamina D non ha dunque mostrato effetti significativi sulla densità minerale ossea e pertanto sulla capacità di prevenire l’osteoporosi.
Un’altra revisione sistematica, a cura di Autier et al., pubblicata su “The Lancet – Diabetes and Endocrinology”, ha analizzato 450 studi, prospettici e interventistici, per determinare se vi fosse una relazione inversa tra la concentrazione di calcidiolo (25(OH)D) e l’insorgenza di varie patologie non muscolo scheletriche (tra cui aumento ponderale, malattie infettive, sclerosi multipla, disordini dell’umore e molti altri) arrivando a una conclusione sorprendente. La carenza di vitamina D sarebbe, secondo gli studiosi, un effetto della malattia e non la causa. Il team di ricercatori indica nei processi infiammatori, coinvolti nell’insorgenza della malattia, e nel decorso clinico la causa della riduzione dei livelli di 25 (OH) D, spiegando perché bassi livelli di vitamina D vengono riportati in merito a una vasta gamma di disturbi.
Entrambi gli studi indicano la necessità di un ripensamento critico, alla luce delle evidenze, dell’utilità terapeutica degli integratori di vitamine e minerali, come peraltro sostenuto con forza da numerosi clinici su “Annals of Internal Medicine”. In un editoriale titolato in maniera inequivocabile “Enough Is Enough: Stop Wasting Money on Vitamin and Mineral Supplements”, gli autori fanno notare che “la prescrizione di integratori di vitamina D, tuttavia, è un’area di ricerca ancora aperta, in particolare per quanto riguarda le persone carenti. Gli studi clinici sono ambigui e talvolta contraddittori”. E aggiungono che “anche se sono necessari studi futuri per chiarire l’uso appropriato degli integratori di vitamina D, l’attuale utilizzo generalizzato non è basato su prove concrete che i benefici siano superiori ai rischi”.