Le malattie croniche infiammatorie intestinali (MICI), ovvero il morbo di Crohn e la rettocolite ulcerosa, possono determinare un maggior rischio di osteoporosi e quindi di fratture ossee. «Questo aspetto è spesso misconosciuto e sottovalutato» spiega Vincenzo Bruzzese, Presidente Nazionale della Sigr (Società Italiana di GastroReumatologia) «l’osteoporosi è una patologia subdola che si evidenzia con l’avvento indesiderato di una frattura ossea».
I processi infiammatori cronici sia di tipo reumatico come l’Artrite Reumatoide sia di tipo intestinale come il Morbo di Crohn si possono complicare con un quadro conclamato di osteoporosi. Le cause di questa complicanza sono molteplici, in primis l’infiammazione stessa, mediata da sostanze chiamate citochine, in particolare il Tumor Necrosis Factor (TNF) e l’Interleukina 6 (IL6) possono determinare uno squilibrio a carico del metabolismo osseo. Inoltre l’uso cronico di cortisone può portare a un’alterazione della struttura ossea anche severa.
Il TNF e l’IL6 agiscono attivando un’altra citochina, denominata RANKL, che a sua volta, determina una più veloce maturazione degli osteoclasti, le cellule deputate al riassorbimento osseo.
«I pazienti con malattie infiammatorie croniche intestinali sono a elevato rischio di osteoporosi per la presenza di più fattori di rischio concorrenti» spiega il gastroenterologo Piero Vernia del Dipartimento di Medicina Interna all’Università di Roma La Sapienza. «La cronicità delle malattie comporta l’esposizione per tempi prolungati a elevate concentrazioni di citochine pro-infiammatorie, che svolgono di per sé una azione negativa sul metabolismo osseo. Secondo fattore negativo è il frequente e prolungato uso di farmaci cortisonici, che notoriamente aggrava il problema, in quanto influisce negativamente sull’attività degli osteoblasti, le cellule che formano le ossa, mentre rimangono attivi gli osteoclasti, responsabili del riassorbimento dello scheletro. Altro fattore aggiuntivo è dato da una dieta povera di latte e latticini, che rappresentano la principale fonte dietetica di calcio».
Proprio la carenza di calcio dovuta alla scarsa assunzione di latticini è un elemento fondante della epidemica diffusione di ossa fragili nei pazienti con Malattie Croniche Infiammatorie che eliminano latte e derivati nel tentativo di diminuire alcuni sintomi.
«Uno studio italiano pubblicato sul Journal Crohn’s Colitis del 2013 su un gruppo di circa 200 pazienti ha mostrato come almeno un terzo di pazienti, in particolare donne, con malattie infiammatorie croniche riceva un apporto inadeguato di calcio dalla dieta che le rende a rischio di osteopenia, condizione reversibile con adeguate strategie correttive come la supplementazione” aggiunge Vernia. Questo dato è stato confermato da una ricerca condotta presso il Dipartimento di Scienze della Nutrizione dell’Università di Bahia, in Brasile che ha valutato l’assunzione di latticini da parte di pazienti con MICI rilevando che il 64,7% li elimina in tutto o in parte dalla dieta quotidiana, percentuale che raggiunge quasi il 100% nei pazienti con Crohn. In dettaglio: il 52,3% ha cambiato abitudini alimentari dopo la diagnosi, il 64,7% ha sostituito in parte il latte di mucca con quello di soia con la conseguenza che il 90,8% dei pazienti presi in esame nello studio ha un apporto di calcio dalla dieta, insufficiente e inadeguato.
Si aggiunge a questa situazione già critica, il fatto che in alcune patologie intestinali è proprio l’intestino tenue a perdere la capacità di assorbimento del prezioso minerale. Inoltre, pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali tendono ad avere una ridotta esposizione al sole, con la conseguenza di un’inadeguata produzione di vitamina D.
«Ecco allora che questi pazienti devono essere valutati nella globalità e non solo nelle patologie presenti» spiega Bruzzese «così da prevenire l’insorgenza di problemi medici che possano peggiorare ulteriormente la vita di questi soggetti. L’identificazione dei fattori di rischio, la loro precoce correzione possono consentire di ridurre il rischio di osteoporosi o almeno di iniziare precocemente un trattamento adeguato. In particolare uno studio del 2014 pubblicato sull’American Journal of Gastroenterology ha mostrato come l’aderenza dei pazienti con colite ulcerosa in trattamento con cortisone allo screening della densità ossea aveva come effetto la diminuzione del 50% del rischio di fratture. La ricerca è stata condotta su oltre 5700 pazienti seguiti per un periodo di follow up di 10 anni, dal 2001 al 2011».
Cosa fare allora? Piero Vernia sottolinea che in questi casi occorre eseguire uno screening per valutare la salute delle ossa e l’opportunità di ricorrere ad una supplementazione di calcio e di vitamina D, attraverso una MOC (mineralometria ossea computerizzata) soprattutto nei soggetti in trattamento con corticosteroidi. La supplementazione con vitamina D può non solo prevenire la degenerazione ossea, ma anche migliorare il quadro clinico delle MICI grazie alle proprietà immunomodulanti proprie di questa molecola.