Ogni anno in Italia si verificano 300mila casi di infezioni acquisite dai pazienti ricoverati in ospedale. Oltre a rappresentare una voce di spesa importante per il sistema sanitario (per l’insorgenza di complicanze e prolungamento della degenza in ospedale), le infezioni nosocomiali oggi costituiscono una vera e propria emergenza sanitaria, perché è sempre più frequente la resistenza dei batteri agli antibiotici.
1 paziente su 2 muore in seguito a infezioni ospedaliere multiresistenti
«Tra i batteri responsabili delle infezioni ospedaliere si sono evoluti ceppi capaci di resistere alla maggior parte degli antibiotici disponibili, che sono molto difficili e talvolta impossibili da trattare – afferma il prof Gian Maria Rossolini, direttore del Laboratorio di Microbiologia e Virologia AOU Careggi di Firenze. – La comparsa dei batteri ultraresistenti ci riporta drammaticamente indietro di oltre mezzo secolo, ai tempi in cui non esistevano farmaci per trattare le infezioni, che erano una importante causa di morte».
Si calcola infatti che addirittura 1 paziente su 2 muoia in seguito a infezione nosocomiale sostenuta da batteri multiresistenti.
Tra i batteri ultraresistenti più importanti responsabili delle infezioni nosocomiali vi sono gli enterobatteri, in particolare Klebsiella pneumoniae, resistenti ai carbapenemi (CRE) e le Pseudomonas aeruginosa ultraresistenti. In particolare, dal 2008 al 2014, secondo i dati pubblicati da ECDC, in Italia è stato osservato un aumento significativo dei ceppi di Klebsiella pneumonia resistente ai carbapenemi, rispetto a tutti i ceppi di Klebsiella isolati, fino a posizionarsi a valori compresi tra il 25 e il 50%. Ma le cifre di prevalenza di questo tipo di infezioni sono da capogiro: nell’Ospedale San Martino di Genova (fa sapere in un comunicato la Società Italiana di Terapia Infettiva- SITA) negli stessi anni le sepsi da Klebsiella sono aumentate del 300%.
Tra le cause dell’aumento delle resistenze vi è l’uso improprio dei “vecchi antibiotici”, abuso che con diverse iniziative in tutto il mondo si sta cercando di contrastare.
«Eppure – denuncia Claudio Viscoli, presidente SITA, – nonostante le numerose campagne di comunicazione del Ministero, vengono ancora prescritti troppi antibiotici: oltre il 50% dei pazienti ricoverati in ospedale viene sottoposto a terapia antimicrobica».
Fermare i super-batteri
I provvedimenti da mettere in atto per contrastare la diffusione di questi temibili super-batteri, secondo Claudio Viscoli, sono ben conosciuti, ma difficilmente applicabili:
- educazione degli operatori sanitari al lavaggio delle mani e all’uso die guanti
- screening e isolamento dei portatori di ceppi di Klebsiella carbapenemi-resistenti
- screening dei contatti
- metodiche di staff-cohorting (ovvero identificare personale dedicato)
- diagnosi microbiologica rapida
«Tutte queste metodiche se applicate insieme e contemporaneamente da tutti gli ospedali e residenze sanitarie di assistenza credo possano arrestare il fenomeno, ma la messa in opera di queste procedure richiede risorse e una forte azione centrale che per ora non si è vista» precisa Viscoli. Da un confronto dei progetti nazionali finalizzati al controllo dell’antibiotico-resistenza e finanziati dal 2007 al 2013 in Europa, emerge infatti che la maggior parte delle risorse sono state impiegate in progetti mirati alle terapie farmacologiche e solo una piccola parte agli interventi attivi di prevenzione.
Servono nuovi antibiotici
Accanto alle misure volte a razionalizzare l’uso degli antibiotici già presenti sul mercato, a migliorare le norme di igiene sanitaria, è fondamentale individuare nuove strategie terapeutiche.
Il problema è che la ricerca sugli antibiotici negli ultimi anni ha progressivamente rallentato, fino a quasi fermarsi. Tra il 1983 e il 1987 sono stati immessi sul mercato 16 nuovi anbitibiotici, ma vent’anni dopo, dal 2003 al 2007 è sceso a 5 il numero dei nuovi antibiotici. «Il motivo di questo arresto è più economico che scientifico: le aziende hanno preferito puntare su trattamenti destinati a mantenersi nel tempo e ad avere ampi margini di guadagno, come gli antitumorali o i farmaci per l’epatite virale, piuttosto che puntare su nuovi antimicrobici destinati a un numero ristretto di persone e mirati solamente per un numero di infezioni che le avrebbero usate per pochi giorni-, denuncia Matteo Bassetti, Direttore Clinica Malattie Infettive, AOU Santa Maria della Misericordia di Udine.
Un problema, quella sostenibilità della ricerca di nuovi antibiotici, reale, ma che BigPharma ha recentemente deciso di affrontare unendo le forze: con un accordo siglato da 85 industrie farmaceutiche di 18 Paesi, ha dichiarato il suo impegno a combattere il fenomeno dell’antibiotico-resistenza e a produrre nuovi farmaci, e ha chiesto ai Governi un aiuto per affrontare le spese (leggi “Big-Pharma con l’antibiotico-resistenza. L’impegno e le richieste”)
Una buona notizia, ma mai abbassare la guardia
All’orizzonte si intravedono alcuni nuovi antibiotici di cui alcuni molto interessanti: nuove combinazioni di inibitori delle betalattamasi in grado di ripristinare l’attività degli antibiotici, soprattutto nei confronti dei Gram-negativi resistenti: ceftolozane/tazobactam, ceftazidime/avibactam, imipenem/relebactam e meropenem/RPX. Oltre a questi saranno disponibili nuove tetracicline (eravaciclina e omedacilina), nuovi aminoglucosidi (plazomicina) , nuovi glicopeptidi (oritavancina). Sarà necessario ancora qualche anno (da 2 a 7) prima che questi farmaci possano raggiungere il mercato. Il rischio, che i batteri imparino a rendere inattivi anche questi nuovi antibiotici, c’è. Per questo è fondamentale non abbassare la guardia», conclude Bassetti.