Per pazienti ad altissimo rischio che potrebbero richiedere meno di 70mg/dl di colesterolo lipoproteico a bassa densità (LDL-C) in prevenzione secondaria, evolocumab potrebbe rivelarsi un’opzione terapeutica fondamentale, anche grazie all’efficacia e alla sicurezza mantenute nel lungo periodo.
Il trattamento a lungo termine con evolocumab, infatti, è stato associato a significative e consolidate riduzioni di LDL-C, senza aumento dei tassi complessivi di eventi avversi nel tempo e senza riscontro di anticorpi neutralizzanti, come confermato dallo studio OSLER-1 (Open-Label Study of Long-TERm Evaluation Against LDL-C).
Lo studio OSLER-1 sul trattamento ipocolesterolemizzante con evolocumab nel lungo periodo
Lo studio OSLER-1 ha valutato la sicurezza e l’efficacia di in pazienti con ipercolesterolemia in terapia di base con statine, e in pazienti con intolleranza alle statine.
I risultati rilevano una riduzione del 59% del LDL-C medio dal basale durante il 1° anno di trattamento (n = 785). Le diminuzioni medie di LDL-C sono state:
- 56% (n = 1071) a 2 anni,
- 57% (n = 1001) a 3 anni,
- 56% (n = 943) a 4 anni,
- 56% (n = 803) a 5 anni.
La percentuale di pazienti con eventi avversi è restata stabile nei 5 anni; il profilo di sicurezza di evolocumab si è mantenuto buono.
«Lo studio OSLER-1 conferma come l’elevata efficacia ipocolesterolemizzante su LDL-C di evolocumab rimanga la stessa per un periodo di osservazione di 5 anni (-56% vs basale) –afferma Alberto Zambon, professore associato di Medicina Interna, Università di Padova – conservando un alto il profilo di sicurezza».
Studi sui livelli di LDL-C in popolazioni di pazienti a rischio estremo
La disponibilità di terapie nuove con un’efficacia significativa nell’abbattere i livelli di colesterolo cattivo, come gli inibitori di PCSK9i, rappresenta un’opzione fondamentale soprattutto per i pazienti ad altissimo rischio. Per questi pazienti mantenere i livelli di LDL-C di 70mg/dl, stabiliti delle attuali linee guide internazionali, potrebbe non essere sufficiente.
«Le evidenze degli studi FOURIER, ODYSSEY OUTCOMES, IMPROVE-IT ci suggeriscono che per alcune tipologie di pazienti sarebbe opportuno abbattere i livelli di LDL oltre i 70 mg/dl. – continua Alberto Zambon – Parliamo di pazienti diabetici coronaropatici, pazienti con arteriopatie periferiche (PAD), con infarti ricorrenti o con ipercolesterolemia familiare e una storia di malattie cardiovascolari precoci. Tali pazienti sono indicati dalle più recenti linee guida AACE (2017) come soggetti a rischio estremo. Sebbene il dibattito se passare da un concetto “the lower the better” a “lowest is best” sia tutt’ora in corso, rimane importante avere la possibilità di ricorrere a terapie, come quelle con gli inibitori PCSK9i, in grado di raggiungere traguardi importanti in termini di efficacia e sicurezza».
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